La Corte d'Appello non torna indietro: per il gruppo, dopo lo scandalo Nigeria, una sanzione pecuniaria di 600.000 euro e ad una confisca di 24,5 milioni a carico di Saipem.
La vicenda:  Snamprogetti, di concerto con gli “altri tre soci” del Consorzio Tskj con i quali doveva costruire un impianto di stoccaggio e trasporto del gas a Bonny Island nel meridione della Nigeria, dietro la voce “costi culturali” avrebbe celato i “versamenti seguiti agli accordi corruttivi” al fine di agevolare politici e funzionari nigeriani e ottenere quei lavori.
E’ quanto si evince all’interno delle ragioni che hanno spinto la Corte d’Appello di Milano a confermare la condanna ad una sanzione pecuniaria di 600.000 euro e ad una confisca di 24,5 milioni di euro a carico di Saipem, società del gruppo Eni che ha incorporato Snamprogetti e imputata in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti.
Lo scorso 19 febbraio, i giudici d’appello (Maiga-Scarlini-Puccinelli) hanno confermato la condanna per la società nel procedimento per presunte mazzette che sarebbero state pagate tra il ’95 e il 2004 dagli allora vertici di Snamprogetti in cambio degli appalti in Nigeria. Saipem, che nel 2008 aveva incorporato Snamprogetti, è rimasta l’unica imputata nel processo, scaturito dall’inchiesta dei pm De Pasquale e Spadaro, perché nel 2012 si sono prescritte le accuse di corruzione internazionale a carico di cinque manager.
Secondo le motivazioni, da poco depositate, “si erano istituti i ‘cultural committee’ che dovevano appunto decidere sui ‘cultural cost’, che altro non erano che le dazioni corruttive”. Secondo il collegio, “si trattava di ingenti pagamenti” e i destinatari delle presunte mazzette “erano certamente dei pubblici funzionari” e in particolare “il principale destinatario” era “lo stesso presidente della Repubblica” nigeriana. I giudici, inoltre, ricordano come “negli atti transattivi con le autorità estere Snamprogetti (e Saipem ed Eni) aveva ammesso tutte le circostanze di fatto che conducevano a qualificare le condotte tenute come atti di corruzione”. I politici nigeriani, dal canto loro, secondo i giudici, hanno trascurato “del tutto le ragioni e gli interesse del Paese” per i loro “personali interessi economici”.