L’Europa corre il rischio di perdere la coincidenza del treno congiunturale globale e di regredire di nuovo. Oltre ai mercati finanziari, questo è stato constatato anche da Mario Draghi, per cui sul finire della primavera ha sganciato la politica monetaria europea da quella americana e ha diminuito ancora i tassi.
Che la conseguente svalutazione dell’euro dia nuovo slancio alle esportazioni europee è ancora tutto da vedere. L’embargo commerciale della Russia è un ulteriore fattore frenante da non sottovalutare. Le possibilità politico-monetarie sono tuttavia esaurite e quindi il Presidente della BCE parla più che agire. I suoi commenti cercano di indebolire l’euro in modo sempre più evidente, dopo che a marzo 2014 affermava ancora: «Il tasso di cambio non è un obiettivo della nostra politica monetaria».
In aprile dichiarava che il tasso di cambio stava diventando un importante fattore nella valutazione a medio termine della stabilità dei prezzi e il 7 agosto infine: «La base per un corso più debole dell’euro è ora migliore rispetto ad alcuni mesi fa» spiega Martin Neff, Economista capo di Raiffeisen. Questo cambio di paradigma verbale è un segnale dei limiti della politica monetaria europea. La politica dei tassi bassi non arriva all’economia reale e allora rimane solo il tasso di cambio come ultimo strumento. Qui c’è lo zampino del Giappone. Fino a quando non si saprà con certezza se due delle tre aree economiche mature del mondo ritorneranno anche solo timidamente alla crescita, gli aumenti dei corsi sulle borse mondiali dovrebbero rimanere modesti. Poiché inoltre le tensioni geopolitiche possono contribuire all’incertezza in ogni momento, difficilmente saranno prevedibili aumenti dei corsi nelle prossime settimane. Le speranze si basano quindi sull’autunno, che però deve confermare le forti aspettative.